domenica 26 giugno 2011

Gli eroi di Berlino e altre menzogne (livorosa e divertita dissertazione sul campionato mondiale di calcio 2006)


Gli eroi di Berlino

Lo ammetto, non ho mai amato più di tanto la Nazionale di calcio Italiana. Da quando ho una coscienza calcistica, non ricordo una sola partita divertente o esteticamente appagante giocata dagli “azzurri”. E’ altresì vero che quando ai mondiali del ’94 Roberto Baggio all’ottantottesimo segnò il primo gol contro la Nigeria riaggiustando una partita messa per il peggio, io a quel gol piansi. Fatico non poco ad ammetterlo, ma all’europeo del 2000, quando l’Italia strappò all’Olanda la qualificazione per la finale, vincendo ai rigori dopo una partita che, a posteriori, non posso che definire semplicemente ignobile, io, al bar con un amico, esultai come un bambino poco distante dal tavolino di una coppia di placidi e paciosi olandesi giunti verosimilmente alla decima birra (pro capite). Ora, che ho sviluppato una mia idea di calcio ideale, me ne vergogno profondamente. Quella partita fu quintessenziale dello spirito furtivo della nazionale italiana. Uno spirito sparagnino e tignoso, caparbio nell’accezione più deteriore del termine. In dieci contro undici per la maggior parte del tempo a causa dell’espulsione di Zambrotta al 33° minuto di gioco, l’Italia guadagnò la finale solamente ai calci di rigore grazie ad una strenua ed estenuante prova difensiva (e a ben due errori dal dischetto degli olandesi durante i 120 minuti di gioco), da sempre il suo pezzo forte. Ma come le irrefrenabili lacrime del 1994, anche quest’ingenua e smodata esultanza al bar, costituisce per me una sorta di alibi, nel senso che posso affermare con sicurezza di non essere stato prevenuto nei confronti della nazionale italiana, di non essere stato mai totalmente frigido di fronte alle emozioni che da essa potevano giungere.
Sono nato nell’agosto del 1982, poco dopo il mondiale vinto dalla nazionale italiana. Ho rivisto e immaginato parecchie volte le immagini di quelle partite, i festeggiamenti per le strade, l’urlo di Tardelli, Pertini, la partita a carte sull’aereo e tutti gli altri aneddoti divenuti leggende. Pur non conoscendo a fondo e non avendo vissuto in prima persona quelle storie, quei personaggi, col tempo dentro di me si è formata l’idea che in quell’estate sia successo qualcosa di indescrivibile, leggendario, clamoroso, un'estasi collettiva. Fin da bambino mi sono sempre chiesto se e quando avrei potuto rivivere simili meravigliose circostanze. Se la nazionale di calcio italiana avrebbe prima o poi regalato anche a me certe emozioni. Be’, ma è successo nel 2006, dirà qualcuno. No, mi dispiace, ma nel 2006, per quanto mi riguarda, non è successo nulla di bello.
Partiamo da un semplice dato statistico che nessuno pare aver rilevato.
Se si eccettua il quarto di finale contro l’Ucraina (una squadra dimostratasi modestissima e che malgrado ciò è riuscita ad infliggere agli azzurri un forcing tale da far decretare all’unisono come migliori in campo Buffon e Cannavaro, portiere e difensore centrale) in tutti gli altri incontri disputati dalla nostra nazionale, il primo gol siglato è nato sempre da un calcio piazzato o dagli immediati sviluppi di un calcio piazzato. Sempre. Controllate pure. L’eventuale secondo gol messo a segno dall’Italia è invece nato da sconfinati contropiedi degni di un videogioco mal configurato avvenuti durante gli ultimissimi minuti di gioco (abbastanza ovvio: gli avversari, sotto di un gol, per tentare di qualificarsi dovevano pur sbilanciarsi). Ciò è avvenuto in tre occasioni. Contro il Ghana, gol del 2-0 di Iaquinta all’83°. Contro la Repubblica Ceca, gol del 2-0 di Inzaghi all’88°. Contro la Germania, gol sempre del 2-0 siglato da Del Piero al 121° minuto, tempi supplementari.
Questa potrebbe sembrare una mera annotazione statistica, se non fosse che tali dati sono purtroppo accompagnati dalle prestazioni dei “ragazzi”. Prestazioni pessime, prive di intraprendenza, di un minimo sindacale di coraggio, scevre da qualsivoglia forma anche lontana di fantasia. Tali prestazioni mettevano in serie difficoltà anche i tecnici delle varie emittenti televisive che, con quel poco che si ritrovavano tra le mani al termine delle partite, dovevano in pochi minuti montare il consueto filmato degli highlights della gara, dove (oltre ai gol di cui si è già parlato) l’azione più saliente era spesso un goffo colpo di testa dello sgomitante Toni su un cross proveniente dalla trequarti in giù.
Queste vergognose prestazioni mettevano in luce, ancora una volta, solamente una cosa: la tigna mordace dei nostri ragazzi. Per qualcuno, se alla fine si porta a casa il risultato, ciò potrebbe essere sufficiente. Per me no. Ma come si dice, de gustibus.
 
Il pensiero che le piazze d’Italia si riempivano di persone davanti ai maxischermi costrette a sorbirsi un simile scempio, il nulla cosmico per novanta minuti, ecco, questo pensiero mi deprime profondamente. Non m’importa che tanto l’importante è esultare alla fine. Non  è del tutto vero, per me poi non è vero del tutto. E forse non lo è, per esempio, nemmeno per i tifosi del Real Madrid che, supportati anche da certa stampa madridista, nella stagione 2007/08, nonostante la vittoria della Liga, continuarono a contestare e a fischiare l’allenatore Schuster, reo secondo loro di non far giocare sufficientemente bene la squadra. Ma torniamo al mondiale del 2006.
Fossi stato un giocatore in campo, avrei avvertito un senso di responsabilità nei confronti di chi, si presume, avrebbe voluto assistere ad uno spettacolo dignitoso, se non addirittura divertente (il che non si traduce in doppi passi a go-go e numeri circensi). La responsabilità nei confronti di coloro che vogliono passare una serata guardando del bel calcio, che vanno a mangiare a casa di amici per poi godersi assieme la partita della nazionale, magari con i propri bambini, di quelli che vogliono sentirsi orgogliosi della propria nazionale, di quelli che all’estero puntano la sveglia e si alzano di notte per guardare la partita. Se fossi un giocatore (a maggior ragione se fossi un giocatore di una delle nazionali più titolate e rinomate), avvertirei la responsabilità di fornire una prestazione degna, volitiva, con le palle. Invece nulla di tutto questo. Il giocatore più talentuoso del lotto (Totti, a prescindere dalla sua forma in quel periodo) costretto ad indietreggiare talvolta oltre la linea di centrocampo e cercare di servire Perrotta, lanciatosi in una vana scorribanda pseudo-offensiva (perché non si può pensare di “offendere” passando la palla a Perrotta in centrocampo o, come si è già detto, scaraventando un pallone al bomber Toni sperando che riesca a farlo suo senza che l’arbitro gli fischi contro, giustamente, l’ennesimo fallo). Ma accantonando questioni puramente tecniche, sulle quali si potrebbe discutere per ore senza trovare accordo, appare innegabile l’inadeguatezza delle prestazioni fornite dagli azzurri, tanto che nelle interviste post-gara, tutti sono concordi nell’affermare che “la prossima partita dovremo giocare sicuramente meglio”. Invero, dalla scialba partita d’esordio contro il Ghana, fino ad arrivare alla finale che ha visto una bella Francia surclassarci (specialmente nel secondo tempo) non si noteranno differenze. D’altronde è arduo auspicare qualcosa di diverso quando chi allena i ragazzi (il guru della simpatia, Marcello Lippi), su esplicita domanda di un giornalista RAI, con l’immarcescibile tono insolentito, afferma che l’atteggiamento apparentemente remissivo visto contro l’Australia (l’Australia!) era in realtà qualcosa di studiato e di appositamente preparato a tavolino con i ragazzi, una precisa scelta tattica. Evidentemente illuminati dalla tattica di Rocky Balboa contro Ivan Drago di far sfiancare l’avversario per poi demolirlo all’ultima ripresa (tattica risultata peraltro vincente), si era quindi deciso di attendere e subire gli avversari. E così è stato (anche grazie all’aiuto di un compiacente arbitro che fischia un rigore dubbio al novantacinquesimo minuto di gioco).
C’è poi un’altra affascinante questione da prendere in esame. A mondiale acquisito, un arguto giornalista di un quotidiano nazionale, scrive che la forza del gruppo Italia risiede anche nel fatto dell’aver portato a segno così tanti giocatori diversi. Tanto è vero che al termine del mondale i capocannonieri dell’Italia risulteranno essere Materazzi e Toni, entrambi a quota 2 gol. Dopo di loro ci sono altri otto giocatori che hanno siglato un gol. Questo, parafrasando sempre le parole dell’intrepido osservatore, è frutto di un gioco che forniva pressoché a tutti di segnare.
Che dire? Le possibilità credo siano due: o il giornalista in questione scrive i suoi articoli da sbronzo, o ama esibirsi in caparbi esercizi di funambolismo concettuale stando a vedere se qualcuno gli dice qualcosa. Di fronte a tale acume, perspicacia e onestà intellettuale, è difficile rimanere seri. E sì, basta ripensare alle partite o anche solo riguardare gli irresistibili highlights di queste, per rendersi conto delle infinite, visionarie trame offensive che consentivano proprio a tutti di segnare. Se non ricordo male, anche Buffon sfiorò il gol in un paio di occasioni. Invece, purtroppo, il fatto che abbiano segnato una rete a testa diversi giocatori è esattamente il frutto dell’assenza di un gioco che ponesse nelle condizioni di segnare prima di tutti gli attaccanti, cioè coloro che sono idealmente designati a “buttarla dentro”, se tutto funzionasse in maniera plausibile. E’ chiaro che qualche rete venga segnata anche da giocatori che ricoprono ruoli diversi dall’attaccante, ma, come si è già fatto notare, i gol sono stati frutto della pura casualità, essendo maturati essenzialmente da situazioni con palla ferma. Dunque poteva avvenire che Gilardino o Materazzi (due volte) insaccassero di testa su calcio d’angolo, che Totti trasformasse un rigore o che Grosso, sugli sviluppi del solito meraviglioso calcio d’angolo, si ritrovasse inspiegabilmente non marcato e con la palla tra i piedi per regalarci la finale. In altri termini, sfruttare come ha fatto l’Italia le palle ferme, era il modo più efficace per poter segnare, sempre che ne fossero previsti altri.
Solitamente, quando espongono tali argomentazioni a qualcuno, la persona in questione conviene (o finge di convenire) ma muove quest’immancabile appunto: “Ma se non l’Italia, chi se lo meritava davvero il mondiale?”. Come per dire, alla fine forse eravamo il meno peggio. Non credo sia vero. Una squadra che avrebbe meritato a mio avviso senz’altro più dell’Italia di vincere il mondiale era la Francia.
La Francia, è vero, inizia male il suo cammino. Pareggia 0-0 contro la Svizzera e pareggia 1-1 contro la Corea del Sud. All’ultima giornata del girone, per essere certa di passare, si trova costretta a battere il Togo con almeno due gol di scarto, cosa che comunque riesce a fare.
Agli ottavi, mentre noi sbrigavamo la pratica Australia con il famoso rigore al 95°, la Francia affronta la Spagna. La Spagna è in nuce la meravigliosa squadra che nel 2008 avrebbe vinto l’europeo e due anni più tardi, nel 2010, avrebbe vinto il mondiale. In avanti schiera giocatori come Raul, Torres e Villa, in mediana il trio Xavi, Xabi Alonso, Fabregas, dietro Puyol e Sergio Ramos, in porta Casillas. Non male, direi. Eppure la Francia, dopo essere passata addirittura in svantaggio, trascinata da un immenso Zidane, sfodera una prova di gran classe e conclude vincendo per 3 a 1.
Ai quarti, mentre l’Italia se la vedeva contro l’Ucraina, la Francia affronta il Brasile dei vari Kakà, Ronaldinho, Robinho e Ronaldo, la squadra favorita da quasi tutti per la vittoria finale. Invece, contro ogni pronostico, è la “vecchia” Francia a vincere. Vince per 1 a 0, ma domina in lungo e in largo, se la partita fosse finita 5-0 nessuno avrebbe avuto da ridire. Ancora una volta è Zidane l’uomo sugli scudi che fa sua la partita con passaggi sontuosi e giocate memorabili.
Si passa quindi alle semifinali, dove, mentre l’Italia sconfigge la Germania, la Francia batte 1-0 in una brutta partita il Portogallo di Cristiano Ronaldo, Deco e Figo, fino a quel momento imbattuto.
La finale è dunque tra Italia e Francia. La partita, lo sanno tutti, dopo i tempi supplementari conclusi sull’uno a uno, finisce ai rigori con la vittoria degli “azzurri”.
La partita vede un primo tempo giocato sostanzialmente alla pari, nella ripresa, invece, i francesi prendono in mano il gioco e creano diverse situazioni pericolose. L’Italia, alle corde, opta per fare ciò che le riesce meglio: si rintana in difesa e stringe i denti. Tattica “a carapace”. Nei tempi supplementari la Francia aumenta ancora di più la pressione ed il possesso palla arrivando ad avere due ottime occasioni; una con Ribery, che sfiora il palo con un rasoterra, e una con un colpo di testa ravvicinatissimo di Zidane che solo un miracolo di Buffon (eletto miglior portiere del torneo e arrivato secondo nella classifica del pallone d’oro 2006 dietro a Cannavaro) trasforma in corner.
Al di là del risultato, a mio avviso la partita è contraddistinta da due episodi degni di nota, entrambi riguardanti Zinedine Zidane. Il primo è quando il campione francese, al 7° minuto di gioco, si accinge a calciare un calcio di rigore fischiato a favore della Francia. Zidane è alla sua ultima partita in carriera, la finale di un mondiale, ha disputato un torneo eccezionale, sta ponendo la parola fine ad una carriera incredibile, costellata da trofei di club e riconoscimenti personali, è unanimemente riconosciuto come uno dei più grandi giocatori degli ultimi anni (se non di sempre), ha di fronte a sé il migliore portiere al mondo, Buffon, e… deve calciare il rigore. 

 
Chissà qual è stato il momento che nella sua testa gli è balenata l’idea di “fare il cucchiaio”. Mettetevi nei suoi panni, in quel momento, specialmente calciando in quel modo, ha solo tutto da perdere. Eppure avvalla quella stramba decisione, stabilisce di farlo ugualmente, di calciare in quel modo audace, leggiadro e beffardo, ed in quel modo realizza il rigore.
Già vi sento: la palla non si è insaccata, ha colpito la traversa, ha sbattuto solamente qualche centimetro dietro la linea di porta, eccetera…
Cazzate.
Il compimento del folle atto del campione obnubila ogni possibile biasimo. Di fronte a tale “atto”, ogni rimostranza non può che suonare fanciullesca, vacua, stonata. Come qualcuno che non ha capito il senso di una barzelletta. In quell’istante, Zidane, si erge a superuomo nietzschiano, ha compreso che è lui stesso a dare significato alla vita, unisce il fatalismo alla fiducia nei propri illimitati mezzi, è demiurgo del proprio destino, padrone della propria anima, si è liberato dai logori concetti del bene, del male, della responsabilità verso un’intera nazione, attraversa un’elitaria indifferenza, è spirito libero tout court.
Ma la storia non finisce qui.
Purtroppo, durante i tempi supplementari, è Marco Materazzi a trasformarsi in strumento della Nemesi Divina, diventando, come ha scritto Franck Baetens sulla rivista francese “Esprit”, “il richiamo vendicativo degli dèi alla misura, verso l’eroe spinto dalla propria dismisura”.
Materazzi, un autentico palombaro dell’intelletto umano, si è macchiato per l’intera carriera di episodi deplorevoli. In campo (persino in amichevoli estive) conta entrate criminali, provocazioni, minacce, gesti violenti ed intimidatori su un ventaglio ampissimo di malcapitati, decisamente troppo lungo da elencare.
Sta di fatto che Zidane, provocato per l’intera partita, al 111° minuto di gioco perde completamente le staffe e sferra una testata in pieno petto all’italiano che cade a terra in preda a follia mistica.
Qui, Zidane, a mio avviso dimostra di sbagliare in due occasioni. Oltre a cadere nella trappola delle volgari manfrine dell’italiano arrivando al punto di sganciargli una testata, sbaglia una seconda volta mirando troppo in basso.
Non è mia intenzione modificare le vostre convinzioni, se intendete raccontare ai vostri futuri figli e nipoti che quello del 2006 è stato un mondiale stoico ed epico, romanzando (forse sarebbe meglio dire “millantando”) le gesta degli “eroi di Berlino”, fatelo pure. A me pare un mondiale vinto alla stessa maniera con cui, due anni prima, la Grecia vinse l’europeo. Con l’aggravante che il tasso tecnico della rosa degli azzurri era infinitamente maggiore rispetto a quello dei greci. Se dunque per i greci era anche lecito aspettarsi un gioco tanto povero, basato su una strenua difesa e speranzose fiondate verso l’unica punta, per l’Italia questo è del tutto inaccettabile. Qualche smemorato potrebbe pensare che il gioco proposto dall’Italia non sia stato così tanto difensivo. Rispondo stilando una plausibile (e credo condivisa da chiunque, difficilmente contestabile) classifica dei nostri giocatori migliori al mondiale. I primi due posti credo spettino a Fabio Cannavaro e a Marco Materazzi, due difensori centrali. Il primo, in seguito soprattutto alle prestazioni di questo mondiale, verrà addirittura insignito del pallone d’oro (!). Il secondo è protagonista di alcuni episodi che risulteranno decisivi per la vittoria finale, oltre a contribuire con mestiere alle indefesse barricate azzurre. In terza posizione metterei Gianluigi Buffon, portiere. Alcuni suoi interventi, alcune sue prestazioni, in effetti hanno del miracoloso (non a caso, come già ricordato, arriverà secondo nella classifica pallone d’oro 2006 dietro a Cannavaro). In quarta posizione, anche qui per via degli episodi positivi in cui si trova ad essere coinvolto, metterei Fabio Grosso. Un altro difensore. Così come colui a cui dedicherei la quinta posizione, il celebratissimo Gianluca Zambrotta. Andiamo avanti. Il sesto migliore dei ragazzi, non credo possa essere altri che Ivan Gennaro Gattuso (uno dei più prosaici incontristi che si siano mai visti), un altro che, dopo il mondiale, verrà incensato veramente da tutti (addetti ai lavori e non) arrivando a lambire inenarrabili vette di gradimento, anche grazie ai suoi claudicanti racconti, come quello in cui confessa di essersi infilato, la notte prima della finale di Berlino, un cubetto di ghiaccio nel deretano per riuscire ad addormentarsi (?!). Proseguiamo a questo punto alla settima posizione, dove collocherei Pirlo, centrocampista davanti alla difesa, uno che gode di un credito smisurato per meriti non meglio specificati e che, anche grazie al mondiale di Germania, nel 2007 giungerà persino quinto (!) nella classifica del pallone d’oro. Giunti a questo punto non saprei delineare con precisione le altre posizioni, che, guarda caso, devono essere divise tra centrocampisti di fascia o avanzati (Camoranesi, Perrotta, Totti) e i temibili bomber (Gilardino, Toni). Ma, come è già emerso, le prestazioni di questi giocatori sono state talmente poco significative che metterli in un ordine esatto risulta davvero complesso.
Il mio vuole essere un puro sfogo, divertito e livoroso, contro un mondiale indegno che ha visto assurgere ad eroi popolari personaggi, sempre a mio avviso, a dir poco deprecabili. Anche qualora volessi, non posso salire sul carro dei vincitori. Se solo penso ai vari glorificati protagonisti che montano su di quel carro, proprio non ce la faccio.
Dell’intellettivamente analfabeta Materazzi non si sa nemmeno da dove partire, semplicemente il peggiore.

 
Il web pullula di filmati delle sue entrate killer ed in generale delle sue malefatte. Parlando di lui, l’ex calciatore di Torino e Milan, Gianluigi Lentini (che da Materazzi in un Perugia-Torino subì un’entrata invereconda), si esprime in questi termini: “Non esistono parole per descriverlo. Una persona sleale. A quei tempi in campo c’erano meno telecamere e lui faceva di quelle cose che non si possono raccontare. Non è un giocatore di calcio”.
E come dimenticare il labbro sanguinante del difensore Cirillo al termine di un Inter-Siena? Materazzi, che nemmeno era tra i convocati ma che si trovava a bordo campo, incitava continuamente i suoi compagni a puntare Cirillo poiché "scarso". Al termine del match, Cirillo insegue Materazzi per un chiarimento (i due sono ex compagni di squadra, tra l’altro) e il tutto sfocia in uno scontro fisico nel tunnel degli spogliatoi di San Siro. Risultato: contusione cranio-facciale con ferita lacero-contusa al versante mucoso del labbro superiore del difensore del Siena e punti di sutura.
Materazzi è anche colui che il 5 maggio 2002, durante Lazio-Inter, partita che l’Inter deve vincere per conquistare lo scudetto ma che incredibilmente si è messa per il peggio, si aggira per il campo pressoché in lacrime implorando gli avversari ad una minore abnegazione in ricordo di quanto successo due anni prima quando lui militava nel Perugia che, battendo la Juventus all’ultima giornata, regalò lo scudetto alla Lazio. “Vi ho fatto vincere lo scudetto” ripete in un piagnucoloso mantra.
D’altra parte lui di correttezza se ne intende. Quando nel 2010 la sua Inter (già avvezza a vincere da alcuni anni in Italia) fa suo uno storico triplete (scudetto-champions league-coppa Italia) lui decide bene di dedicare i festeggiamenti alla derisione degli avversari storici. Così quando l’Inter vince lo scudetto, lui per tutto il tempo della festa indossa esibendola tronfio alle telecamere una maglietta con la scritta “Nun è successo”. Il suo obiettivo è quello di prendendosi gioco dei tifosi romanisti che, nonostante siano stati in lotta per lo scudetto proprio contro l’Inter fino all’ultima giornata, per scaramanzia, coniarono il motto: “Nun succede, ma se succede…”. Non contento, quando l’Inter vince la Champions League, lui prontamente indossa (e porta persino quando alza la coppa sul palco d’onore) una maglietta con la scritta: “Rivolete anche questa?”. Ora è la Juventus il focus del suo dileggio, poiché canzona la volontà (legittima o meno) della Juventus e dei suoi tifosi di rivolere indietro i due scudetti del 2004-05 e del 2005-06, revocati dalla Corte Federale per le note di vicende di “calciopoli”. Innumerevoli sono invece gli sberleffi ai cugini milanisti, dalla maschera di Berlusconi agli striscioni di scherno sempre alzati da Marco, novello joker. Quando si dice “l’arte di saper vincere”. 



Un personaggio pirandelliano, intellettivamente vergine, il cui cervello, mai utilizzato fino in fondo, è ancora dotato di imene. Con uno come lui persino il Dalai Lama perderebbe la pazienza.
Cannavaro, uno che ha fatto delle sforbiciate volanti una ragione di vita, un randellatore di prima categoria, capace di rompere la tibia a Mudingayi, allora alla Lazio, in un inutile fallo a metà campo al quinto minuto di gioco e di chiedere scusa pubblicamente solo tre giorni più tardi. Delio Rossi, allora allenatore della Lazio, non si capacitò del fallo definendolo “intimidatorio”. Lo stesso Mudingayi definì il fatto come “vergognoso”. Per la cronaca, Cannavaro in quell’occasione non venne nemmeno ammonito dall’arbitro, arbitro che però al 35° di quella stessa partita optò per espellere il laziale Dabo per proteste in seguito ad un gol annullato.
 
Gattuso, l’uomo vero per definizione, nei fatti è invece il gran visir di tutti i paraculi. Per essendo sostanzialmente un uomo basico, è invero stato capacissimo di attirare su di sé stima e simpatie, arruffianandosi tifosi e giornalisti. Esaltatore di valori tipicamente “terroni”, Gattuso recita da sempre la parte di quello attaccato alla maglia, di quello che non tradisce, ancor più di quello “che si prende le sue responsabilità”, di quello “che ci mette sempre la faccia”, di quello “che gli errori li paga in prima persona”. Tutte locuzioni che vogliono dire tutto e niente perché spiegatemi voi come si può fare a meno di “prendersi le proprie responsabilità”, come si può, per esempio, “non pagare in prima persona” eventuali errori come quello di aggredire indecorosamente Joe Jordan, allenatore in seconda del Tottenham durante e dopo la partita di Champions League Milan-Tottenham nel febbraio 2011, come può uno evitare di “metterci la faccia” quando si viene immortalati dalle telecamere a cantare con gli ultras “Leonardo uomo di merda”. Anzi, a pensarci bene in questa occasione Gattuso riesce persino a non mettercela la faccia, obbligando la società a chiedere scusa per lui e limitandosi a protestare contro i giornalisti: “Ho fatto dieci cori, chissà come mai parlate solo di quello”.
Ma evidentemente queste vuote stereotipie, questi vaniloqui, se ribaditi con solerzia maniacale davanti alle telecamere, fanno la loro sporca figura e finiscono per convincere la maggior parte degli ingenui. 

In realtà, Gattuso negli anni ha esibito diversi atteggiamenti contrari a quella rettitudine, a quell’incorruttibilità, a quella fedeltà, a quella coerenza, a quella lealtà a lui apparentemente tanto care.
Nel 2005 il Milan perse incredibilmente la finale Champions League contro il Liverpool dopo che alla fine del primo tempo era avanti per 3-0. Nei giorni seguenti quel match sciagurato, drammatico, ricordo diversi giocatori del Milan sostenere in interviste di voler rimanere e far di tutto per vincere la Champions League sfumata in modo tanto tragico (il Milan la vincerà davvero nel 2007, sempre contro il Liverpool in finale). Si può dire che tutti la pensavano così, tutti tranne la bandiera del Milan, il suo futuro capitano, il guerriero. Come ammesso da lui stesso, infatti, Gattuso pensò di lasciare il Milan a causa dell’enorme delusione provata. Alla fine ci pensa Rui Costa a fargli cambiare idea entrando una sera nella sua stanza e spiegandogli che lui, Gattuso, non poteva far questo, non poteva abdicare come era tentato di fare, che lui per i tifosi era qualcosa di diverso, era una bandiera, un mito, un eroe, non uno come tanti altri. No, non poteva andarsene. Gattuso racconta che proprio in seguito a tale conversazione (che lui stesso definisce “commovente”) decide di rimanere. Ma non finisce qui.
Il Milan rischia di perdere Gattuso anche nell’estate del 2008, quando, al termine di una stagione deludente (il Milan esce agli ottavi in Champions e arriva 5° in campionato) si spargono sempre più insistenti le voci di un futuro in Bundesliga per Ringhio. Le voci si riveleranno non essere infondate. Gattuso, assieme al suo procuratore, si reca in sede del Milan una prima volta, ma all’uscita si mostra nervoso e non dichiara nulla. Si vocifera di un nulla di fatto. V’è quindi un secondo incontro, al quale partecipa anche l’allenatore Ancelotti. Al termine di questo, il Milan indice una conferenza stampa per far chiarezza sulla situazione Gattuso. Ecco alcune dichiarazioni di Gattuso riportate dal sito ufficiale dell’A.C. Milan:
“Non vado via perché ho chiarito tutti i miei dubbi. Si sono fatti alcuni discorsi in questi giorni, ma ci tengo a precisare che non ho mai parlato di soldi. Chiudo la mia carriera nel Milan, sicuramente rimarrò fino al 2011. Rimanere qui è un orgoglio anche perché basta guardarsi attorno per vedere tutte le Coppe che sono state vinte”.
Per capire la caratura e l’orgoglio del personaggio in questione, illuminanti sono le seguenti dichiarazioni di Gattuso tratte da un’intervista rilasciata al giornalista Franco Ordine, Il Giornale. L’intervista fa riferimento al suo mancato passaggio al Bayern Monaco e ci aiuta a capire le reali motivazione che stavano spingendo Gattuso al divorzio dal Milan.
Nel torneo precedente non ero più io, correvo male, col motore a folle, mai lucido, sempre in affanno. E c’era qualcuno pronto a giurare che ero spompato, arrivato alla fine. Perciò quando arrivò il Bayern, invece che sbattere la porta, ascoltai la proposta”.
Impossibile non riconoscere la tempra dell’uomo vero, del guerriero, che, piccato dalle voci che lo mettevano per la prima volta in discussione, sceglie come strada più opportuna “ascoltare la proposta del Bayern”. Non di restare e dimostrare il proprio valore. No, colui “che si prendere sempre le proprie responsabilità”, come per ripicca alla critiche, prende in considerazione l’ipotesi d’andarsene. Ma alla fine Gattuso sceglierà di rimanere e di “chiudere sicuramente la carriera al Milan”.
Invece, contraddicendosi in tempo record, Gattuso fa capire di poter ancora partire solamente un anno più tardi, nel 2009, quando, al termine di una stagione deludente per il Milan (addirittura fuori dalla coppa Uefa ai sedicesimi) l’allenatore Carlo Ancellotti finisce per andare ad allenare il Chelsea in Inghilterra. In quell’estate complicata, costellata dalle innumerevoli critiche da parte dei tifosi e degli addetti ai lavori verso la società Milan colpevole secondo loro di non stare investendo abbastanza, l’Uomo Vero pensa ancora una volta di lasciare la barca mentre affonda. Dichiara: “Adoro la Premier League, perché è il campionato migliore per le mie caratteristiche. Quanto a me, non so quello che succederà: sono al Milan da tanto tempo e non è facile andare via, ma dobbiamo vedere. Il Chelsea è una grandissima squadra e con Ancelotti ho lavorato otto anni e lo considero un secondo padre”. Ulteriore benzina sul fuoco degli animi già fumantini dei tifosi milanisti. Alla fine Gattuso non andrà al Chelsea e ci pensa il suo procuratore a chiarire: “Rino ha semplicemente risposto ad una domanda, ma il Milan è la sua casa”.
Non bastassero di già tutte queste manfrine, succede che all’inizio della stagione 2009-10, per la prima volta Gattuso non giochi con l’assiduità auspicata (questo anche a causa, come ammette lui stesso, di qualche infortunio di troppo). In ogni caso, Leonardo, nuovo allenatore del Milan, sembra optare inizialmente per altre scelte. E l’eroe di Berlino che fa? Prova a stringere i denti e ad allenarsi duramente per far cambiare idea al suo allenatore, a sfruttare le occasioni che gli vengono concesse, ma proprio non ce la fa, e dopo due domeniche che parte dalla panchina, trovando evidentemente insostenibile tale situazione, sbotta ai microfoni di Sky: “Io sono Rino Gattuso e non devo aspettare che qualcuno si faccia male per giocare. Non sono contento in questo momento. L’infortunio mi tiene lontano dal campo da gioco e vengo utilizzato poco. Non posso pensare di non essere più indispensabile per questa squadra dopo 11 anni, non riesco ad adattarmi a questa idea”.
Qui il giornalista gli domanda del suo futuro, azzarda un’ipotetica partenza dal Milan. Gattuso risponde: “E' presto per parlarne. Ne discuteremo con la società a gennaio e decideremo cosa fare. Il modulo mi penalizza. Ci dovremo sedere per parlare meglio di me”.
Nel giugno del 2010, dal ritiro della Nazionale, Gattuso, sempre al termine della suddetta stagione dove, per la prima volta, non viene schierato titolare con continuità, rincara la dose: “Per 11 anni sono stato abituato a giocare tutte le partite, quando non c’ero si sentiva la mia mancanza. Per giocare bene e per dare il massimo mi devo sentire importante per una squadra, devo avere entusiasmo. Senza cattiveria e l'entusiasmo giusto, sono un giocatore poco utile, di terza categoria. Se devo ripetere una stagione come quella passata, meglio che me ne vado a pescare. Del mio futuro però avremo tempo di parlare dopo la fine del mondiale, per ora è necessario concentrare tutte le attenzioni sulla nazionale. Ho due anni di contratto con il Milan, ma vedremo”.
E’ lapalissiana qui la tempra, l’orgoglio, la dignità del campione che, non giocando per la prima volta nella sua carriera con la frequenza desiderata, picchia i piedi e paventa (ancora una volta, ormai è un mantra) la possibilità d’andarsene.
Nonostante si autoproclami bandiera del Milan, a Gattuso evidentemente piace vagliare le offerte come al cospetto di un catalogo Ikea, dato che lo fa anche nel 2011, quando, appena vinto lo scudetto con il Milan dichiara: “Ho ricevuto un’offerta dal Daghestan. L'ho valutata, era un’offerta importante, ma alla fine il Milan è casa mia”. E’ proprio vero, quanto senta il Milan “casa sua” l’ha dimostrato in tutti questi anni, anni in cui nessun altro poteva dimostrasi tanto legato alla maglia quanto lui. Il sangue rossonero che gli scorre nelle vene non l’ha tradito nemmeno questa volta!
Gattuso uomo vero
E’ antropologicamente curioso notare come i tifosi del Milan ed i suoi innumerevoli estimatori, si siano sempre dimenticati alla velocità della luce di tutti i succitati episodi, restando continuamente ipnotizzati dalle sue urla belluine, dalle pose da wrestler e dall’immancabile pugno che Gattuso , dopo pressoché ogni tackle andato a buon fine, fa sbattere contro il cuore rivolgendosi al suo devoto pubblico in segno di comunione spirituale, virilità, incorruttibilità, coerenza, integrità (di solito lo fa sbraitando come un ossesso). Perché lui, non scordiamolo, è Rino Gattuso, l’uomo vero.
Pirlo, un vero e proprio equivoco mediatico. Andrea Pirlo piace praticamente a tutti, ma non ho ben chiaro i motivi. Giocatore limitato e limitante, che può giocare solamente in una posizione del centrocampo che caratterizza fortemente l’intero gioco della squadra, è da almeno otto stagioni che vive di rendita giovandosi di un credito storico tanto illimitato quanto ingiustificato. Pirlo, il cui gioco monotematico, piuttosto che un metronomo, rievoca maggiormente la stanca imperturbabilità di un vecchio pendolo. Qualcuno, in molti si direbbe, la scambia per qualità, ma invero l’idea di calcio che veicola Pirlo è piuttosto semplice. E prosaica. Andrea, carismatico quanto un erogatore bancomat, trotterella per il campo e quando riceva palla da destra, si volta, e la porge a sinistra, quando la riceve da sinistra, si volta, e la porge a destra. Qualcuno mi farebbe notare che Pirlo è dotato di lanci lunghi millimetrici. Stronzata. L’ultimo a trasformare in un vero e proprio assist un lancio lungo di Pirlo, (rendendo in questo modo la giocata finalmente decisiva) credo sia stato Schevchenko. Qualche altro suo estimatore protesterebbe: “Ma segna su punizione!”. Stronzata sesquipedale. Non riesco a ricordare, proprio non ce la faccio, l’ultimo gol segnato da Pirlo su punizione. In generale, nonostante la fama di Pirlo sia di essere “un centrocampista che segna”, dal 2008 al 2011 in campionato ha segnato due soli gol. Dal punto di vista difensivo (tra l’altro staziona in una zona piuttosto delicata del campo, immediatamente davanti la difesa) caliamo un velo pietoso. Eppure Pirlo, almeno fino ad oggi, ha continuato a godere di una pubblicità straordinaria, anche se un Pizarro qualsiasi se lo mangerebbe. Per non parlare di uno come Xavi, troppo spesso insensatamente accostato al centrocampista bresciano.
Lippi, simpatico come un attacco d’asma notturno, è un vecchio arrogante e bilioso, capace come nessun altro di definire nuovi paradigmi di insofferenza, i cui maggiori successi sono ascrivibili ad un periodo oscuro del calcio italiano, nel quale, anche se ormai non più giuridicamente, a logica non si può escludere l’intervento della longa mano di Luciano Moggi (un altro che della gradevolezza ha fatto una scelta di vita).
No, decisamente non posso salire su un carro ricco di tale fauna.
A chi, dopo questo tripudio di livore, è arrivato fino a questo punto della lettura, potrebbe insinuarsi un interrogativo, e cioè che io sia solamente un criticone, un amante della polemica, un bastian contrario, uno che vede il calcio come una valvola di sfogo per la propria indignazione, uno, insomma, che non gli va mai bene niente. Non credo sia così. Amo il calcio, mi piace seguire le vicende dei suoi protagonisti e attendo con fremente stupore il proseguo della narrazione che regala questo sport. Narrazione che, alla stregua di un libro che si è appena terminato di leggere, a volte mi piace e a volte no, a volte mi emoziona parecchio, a volte è una delusione.
Ho amato, per esempio, l’Udinese di Zaccheroni, quella dell’epico tridente Amoroso-Bierhoff-Poggi, che conquistò un incredibile terzo posto nel 1997-98 qualificandosi per la Champions League con un calcio coraggioso e spettacolare.
Sono rimasto avvinto dalla bambinesca sfrontatezza del “Miracolo Chievo” di Del Neri, capace di un quinto posto alla sua prima stagione in serie A andando a giocare ovunque a testa alta e con spirito aggressivo.
Non mi sono forse mai emozionato tanto per una partita di calcio come in occasione di Real Madrid-Roma, ottavi di Champions League 2007-08, partita terminata, contro ogni pronostico, 1 a 2 per i giallorossi (reti di Taddei e Vucinic). La Roma, data per spacciata di fronte alla compagine madrilena, sforna una prova di grande carattere e dal gioco mirabolante, finendo per conquistare il Bernabeu.
Impazzisco per il gioco rivoluzionario del Barcellona di Guardiola, fatto di difesa alta, terzini altissimi, pressing, sovrapposizioni, aiuti sempre pronti al portatore di palla, possesso annichilente, repentini scambi di posizioni.
Rui Costa dipinge poesia
Non odio tutti i giocatori. Contro i da me tanto criticati protagonisti del mondiale 2006, preferisco crogiolarmi nella visione o nel ricordo delle gesta di quattro giocatori che, invece, mi hanno fatto letteralmente innamorare del calcio: Baggio, Totti, Zidane, Rui Costa. Questi quattro, se prendiamo per buona la definizione di “calciatore” per uno come Gattuso, necessitano di una denominazione differente. Non posso considerare “colleghi”, per dire, Zidane e Gattuso. Zidane gioca a calcio, Gattuso insegue la palla. Questi quattro non sono semplici calciatori, sono poesia applicata al calcio. Siamo agli antipodi di quanto è successo nell’estate 2006. Ma evidentemente sono il solo a pensarla così, soprattutto non lo deve avere pensato la Federcalcio Italiana (immagino sia stata lei anche se non so esattamente cosa sia né voglio saperlo) che, dopo le sue dimissioni successive al mondiale vinto, richiama Marcello Lippi per guidare la nazionale anche al mondiale del 2010 (ma qui gli dèi guarderanno giù e porranno freno all’indecenza). Come è andata a finire questa volta lo sappiamo tutti.
Per la serie: quando si è toccato il fondo, si può sempre scavare.